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Trattamento di Fine Rapporto

Cosa c’è da sapere sul tuo TFR

L’indennità del TFR risale al 1924 con la legge sull’impiego privato R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, la norma introdusse un’indennità ulteriore, valida solo per il personale impiegatizio e solo per i casi di licenziamento non per giusta causa, prima  del 1982, l’indennità spettante al prestatore di lavoro all’atto della cessazione del rapporto era denominata,  indennità di licenziamento, e successivamente indennità di anzianità.

Con la  Legge 297/1982 il legislatore  ha  modificato profondamente l’istituto, ora denominato Trattamento di fine rapporto. Il TFR è un elemento retributivo differito che spetta al lavoratore subordinato in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, è una quota parte della retribuzione mensile, che viene accantonata e poi erogata dal datore di lavoro quando il rapporto lavorativo si interrompe. Queste quote sono poi rivalutate e sono a disposizione del lavoratore nel momento in cui   cessa il rapporto di lavoro.

Un’ulteriore modifica è stata introdotta con il D.Lgs. 21/04/1993, n. 124 che ha   inserito la disciplina dei fondi pensione privatistici, cioè di quelle forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari con lo scopo di assicurare   livelli di copertura previdenziale più elevati.

Le forme di Previdenza Complementare costituiscono il c.d. secondo pilastro del nostro sistema previdenziale, che si affianca al sistema pensionistico pubblico c.d. primo pilastro.  Con la Legge 296/2006, si è reso obbligatorio il conferimento del TFR maturando a forme pensionistiche complementari, dal 1° gennaio 2007, ha di nuovo mutato la finalità dell’istituto che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe diventare uno strumento di finanziamento previdenziale.

Dal 1 gennaio 2007, ciascun lavoratore dipendente deve decidere se destinare il proprio TFR da maturare alle forma pensionistiche complementari o mantenere lo stesso presso il datore di lavoro.

E’ importante sottolineare   che il nuovo regime riguarda esclusivamente il TFR che matura dal 1° gennaio 2007. Il TFR maturato fino alla data di esercizio dell’opzione resta accantonato presso il datore di lavoro e sarà liquidato alla fine del rapporto di lavoro.  Il lavoratore entro 6 mesi dall’assunzione deve esprimere la sua volontà, se avvenuta successivamente al 1° gennaio 2007; mentre per i lavoratori  già in servizio all’entrata in vigore della riforma hanno dovuto esprimere la scelta entro il 30.6.2007, il lavoratore dipendente del settore privato deve effettuare la scelta di adesione o meno alla previdenza complementare con le seguenti modalità :

  1. Il lavoratore può decidere di aderire alla previdenza complementare, indicando il fondo pensione prescelto e dichiarando la propria volontà di conferirvi a titolo di contribuzione il TFR maturando (assenso esplicito), l’adesione determina l’automatica iscrizione del lavoratore alla forma indicata.
  2. Oppure decidere di non aderire, dichiarando espressamente il proprio diniego (rifiuto esplicito) scegliendo per il mantenimento del TFR maturando presso il proprio datore di lavoro; il lavoratore comunque può sempre decidere successivamente di revocare tale scelta e conferire il TFR ad un fondo pensione complementare. Nel caso in cui il lavoratore lasci passare inutilmente i 6 mesi di tempo previsti dalla legge, l’adesione al fondo pensione categoriale avviene automaticamente, e comporta la devoluzione integrale e obbligatoria del TFR maturando (silenzio – assenso).

Il datore di lavoro è obbligato a trasferire il TFR maturando del dipendente al fondo pensione individuato secondo i criteri definiti dall’art. 8, c. 7, lett. b, DLgs. 252/2005.

Se il lavoratore aderisce volontariamente o per effetto del silenzio assenso, la decisione sarà irrevocabile e il TFR maturando sarà devoluto al Fondo Pensione ( Al termine del rapporto pertanto non gli verrà corrisposto il TFR, ma riceverà, a cominciare dalla data di maturazione dei requisiti per il diritto al trattamento pensionistico, sarà una pensione integrativa in forma  di una rendita periodica); se l’adesione proviene da un lavoratore con un rapporto iniziato anteriormente al 1° gennaio 2007, il TFR maturato precedentemente sarà corrisposto in regime di retribuzione differita alla cessazione del rapporto;

Se il lavoratore decide di non aderire a nessuna previdenza complementare continuerà a maturare il TFR che sarà liquidato al termine del rapporto in regime di retribuzione differita.

Un regime particolare è previsto per i lavoratori con rapporto già in essere al 29 aprile 1993, è previsto  un regime particolare, in quanto  hanno la possibilità di trasferire anche solo una parte del TFR maturando, con le seguenti modalità:

  • I soggetti che al 1° gennaio 2007 erano già iscritti ad una forma pensionistica complementare possono decidere di contribuire al fondo con la stessa quota versata in precedenza mantenendo presso il datore di lavoro la quota residua di TFR. In tal caso, per i lavoratori di aziende con più di 49 dipendenti, il residuo TFR è trasferito dal datore di lavoro al Fondo Tesoreria Inps;
  • I lavoratori che al 1° gennaio 2007 non erano iscritti ad una forma pensionistica complementare possono scegliere di trasferire il TFR futuro a una forma pensionistica complementare, nella misura fissata dagli accordi collettivi o, in assenza, in misura non inferiore al 50%.

In entrambi i casi resta ferma la possibilità di incrementare la quota di TFR futuro da versare alla forma pensionistica complementare.

L’adesione dei dipendenti alle forme pensionistiche complementari comporta L’obbligo per i datori di lavoro di versare mese per mese la quota di retribuzione  accantonata a titolo di TFR al Fondo Pensione prescelto dal lavoratore.

Nelle  aziende con almeno 50 dipendenti, il datore perde di fatto la disponibilità di tali quote dovendole conferire ad un apposito fondo (c.d. Fondo Tesoreria) istituito dalla Legge 296/2006 presso la Tesoreria dello Stato e gestito dall’Inps.

Il Fondo Tesoreria erogherà le prestazioni secondo le modalità previste dall’art. 2120 c.c.

Anche il calcolo del Tfr ha subito nel tempo delle modifiche infatti la della Legge 297/1982, prevedeva, in caso di cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la corresponsione al lavoratore di un’indennità di anzianità proporzionale agli anni di servizio. L’ammontare dell’indennità (conosciuta come liquidazione) era determinata in base all’ultima retribuzione e in relazione alla categoria di appartenenza del prestatore di lavoro.

Il calcolo dell’indennità di anzianità seguiva modalità diverse a seconda che si trattasse di impiegati o di operai:

  • per gli impiegati si moltiplicava l’ultima retribuzione mensile per il numero di anni di servizio maturati presso la stessa azienda;
  • per gli operai si moltiplicava l’ultima retribuzione oraria per il numero di ore annue (fissato convenzionalmente dalla contrattazione collettiva di categoria) e quindi per il numero di anni di servizio.

Secondo l’art. 2120 Codice Civile, come modificato della L. 297/1982, il TFR si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari, e comunque non superiore, all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5 (art. 2120 c.c., c. 1).

In caso di sospensione del rapporto di lavoro nel corso dell’anno per infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve considerarsi quale base per il calcolo del TFR da accantonare l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto stesso (art. 2120 c.c., c. 3).

La quota di TFR accantonata, ad eccezione di quella maturata nell’anno in corso, deve essere incrementata al 31 dicembre di ogni anno, con l’applicazione di un tasso dell’indice Istat (art. 2120 c.c., c. 4).

Per i lavoratori in forza alla data del 1° giugno 1982,il TFR verrà  calcolato con il sistema misto, per gli anni di lavoro anteriori alla L. 297 del 1982 , si calcola la retribuzione di maggio 1982 per gli anni di servizio maturati fino al 31/05/82 e l’importo ottenuto viene rivalutato anno per anno, sempre in base alle tabelle Istat.

Per i periodi successivi al 1/06/1982 il calcolo viene effettuato in base all’art 2120 c.c.

Il TFR spettante sarà dunque costituito dalla somma degli importi ottenuti con i due criteri di calcolo.

L’art. 2122 stabilisce che, in caso di morte del lavoratore, il TFR maturato fino alla data del decesso sia corrisposto sotto forma di indennità sostitutiva ai superstiti.

Ne hanno diritto il coniuge, i figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, anche i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. In mancanza di tali persone, l’indennità è attribuita secondo le regole della successione testamentaria o legittima.

E possibile per il lavoratore richiedere un anticipazione del TFR (art. 2120 c.c. commi 6 – 11) in base a determinate condizioni:

  • il lavoratore deve avere maturato almeno 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro;
  • l’anticipazione deve essere contenuta nei limiti del 70 % del trattamento spettante nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta;
  • l’anticipazione deve essere altresì contenuta nei limiti del 10 % degli aventi titolo e, comunque, del 4 % del numero totale dei dipendenti. ;
  • l’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro (art. 2120 c.c., c. 9).

La richiesta deve essere giustificata dalla necessità di:

  • per spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti da strutture pubbliche;
  • Per acquisto della prima casa di abitazione per seo per i figli, deve essere documentato con atto notarile; per spese sostenute durante i periodi di utilizzo di congedi parentali o per spese di formazione del lavoratore.

Per terminare è importante ricordare che l’art 2 della L. 297/82 ha istituito presso l’INPS il Fondo di Garanzia per il TFR, questo fondo ha lo scopo di erogare al lavoratore dipendente o suoi aventi causa il TFR in caso di insolvenza da parte del Datore di Lavoro; i casi in cui può essere richiesta l’erogazione del TFR da parte del Fondo di garanzia sono definiti dallo stesso art. 2 della Legge 297/1982 (commi 2 – 5); essi sono: Il Fallimento; il Concordato Preventivo e la Liquidazione Coatta Amministrativa.

di Marina Parente, consulente del lavoro per il Magazine Condominio Zero Problemi

In quali immobili conviene investire?

Investimenti nel settore alberghiero: opportunità e sfide per gli investitori
L’industria nel settore alberghiero continua a suscitare interesse come opzione di investimento, ma richiede una valutazione accurata delle opportunità e delle sfide per garantire il successo.

L’industria nel settore alberghiero rappresenta da tempo una fonte di interesse per gli investitori alla ricerca di opportunità di crescita e rendimenti redditizi. Tuttavia, con la complessità e le sfide uniche che caratterizzano questo settore, è essenziale una valutazione accurata prima di intraprendere investimenti nel settore.

Uno degli aspetti chiave da considerare è la posizione dell’hotel. La localizzazione geografica svolge un ruolo cruciale nel determinare il successo di un investimento alberghiero. Le destinazioni turistiche consolidate, come le città principali e le località turistiche di fama internazionale, possono offrire prospettive più sicure e stabili. Allo stesso tempo, le destinazioni emergenti possono presentare opportunità di crescita più elevate ma anche un rischio maggiore.

Oltre alla posizione, è fondamentale valutare il mercato e la domanda di hotel nella zona target. Un’analisi approfondita del mercato, inclusi gli indicatori di performance chiave come il tasso di occupazione, il reddito per camera disponibile e il prezzo medio giornaliero, aiuta a comprendere il potenziale di guadagno e la sostenibilità dell’investimento.

Un altro fattore importante da considerare è la tipologia di hotel. Diverse categorie, come hotel full-service, boutique hotel o resort, presentano caratteristiche uniche e possono attrarre diverse tipologie di clienti. La scelta della tipologia di hotel più adatta dipende dagli obiettivi dell’investitore, dal profilo del mercato e dalle esigenze dei potenziali ospiti.

Oltre alle opportunità, gli investimenti nel settore alberghiero comportano anche sfide significative. La stagionalità può influenzare la redditività degli hotel, con periodi di alta e bassa stagione che richiedono una gestione attenta delle entrate e dei costi. Inoltre, le dinamiche di mercato, come le fluttuazioni economiche e le tendenze di viaggio in evoluzione, possono avere un impatto sulla domanda di alloggio.

Un altro aspetto cruciale è la gestione operativa dell’hotel. Molti investitori scelgono di affidare la gestione dell’hotel a un’azienda specializzata nel settore alberghiero. Tuttavia, è essenziale selezionare un partner di gestione affidabile con una comprovata esperienza nel settore per garantire una gestione efficace delle operazioni e massimizzare i rendimenti.

Infine, i rischi legati agli investimenti nel settore alberghiero devono essere attentamente valutati. Questi includono rischi finanziari, legali e reputazionali. Una valutazione dettagliata del piano di business, un’analisi dei costi e dei ricavi, e un esame approfondito degli aspetti contrattuali sono fondamentali per mitigare i rischi e massimizzare i rendimenti.

Nonostante le sfide, gli investimenti nel settore alberghiero continuano a offrire opportunità significative per gli investitori. Con una valutazione accurata delle opportunità, una gestione oculata delle operazioni e un’attenzione costante alle dinamiche del mercato, gli investimenti nel settore alberghiero possono risultare redditizi e gratificanti.

In conclusione, gli investimenti nel settore alberghiero richiedono una valutazione approfondita delle opportunità e delle sfide. La scelta della posizione, la comprensione del mercato, la gestione operativa efficace e la gestione dei rischi sono elementi chiave per il successo di un investimento alberghiero. Con una pianificazione oculata e un’analisi accurata, gli investitori possono trarre vantaggio dalle opportunità offerte da questo settore in continua evoluzione.

di Marco Fasanella, avvocato LLM, Property Developer and Investor per il Magazine Condominio Zero Problemi

Edificio ecosostenibile.

Quali sono le caratteristiche che lo definiscono tale.
Dalle finestre alle rinnovabili ecco una serie di strumenti per migliorare l’efficienza energetica dei nostri palazzi in modo ecosostenibile e risparmiare sui costi di gestione nel lungo periodo.

L’edilizia ecosostenibile è un approccio alla progettazione, costruzione e gestione degli edifici che mira a ridurre l’impatto ambientale e promuovere l’efficienza energetica, l’uso responsabile delle risorse naturali e la salute degli occupanti.

Ci sono diverse pratiche e tecnologie associate all’edilizia ecosostenibile. Alcuni dei principali elementi includono:

 

  1. Efficienza energetica: gli edifici ecosostenibili sono progettati per ridurre al minimo il consumo energetico. Ciò può includere l’isolamento termico, l’istallazione di finestra ad alta efficienza energetica, l’uso di apparecchiature elettroniche a basso consumo energetico e l’impiego di sistemi di riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria efficienti;
  2. L’uso delle energie rinnovabili: l’installazione di sistemi per l’energia solare, eolica o idroelettrica consente agli edifici di generare energia pulita e ridurre la dipendenza dalle fonti di energia tradizionali.
  3. Gestione delle acque: l’edilizia ecosostenibile promuove la gestione responsabile delle risorse idriche. Ciò può includere la raccolta e l’utilizzo delle acque piovane, il riciclaggio dell’acqua grigia (acqua proveniente da lavandini, docce e lavatrici) per scopi non potabili e l’impiego di sistemi di sistemi di irrigazione efficienti.
  4. Materiali sostenibili: gli edifici ecosostenibili favoriscono l’uso di materiali a basso impatto ambientale. Questi materiali possono essere riciclati, provenire da fonti rinnovabili o essere prodotti con processi a bassa emissione di carbonio. Ad esempio il legno proveniente da foreste gestite in modo sostenibile è spesso preferito rispetto ai materiali da costruzioni convenzionali come il cemento e l’acciaio.
  5. Salute e benessere degli occupanti: gli edifici ecosostenibili sono progettati per promuovere la salute e il confort degli occupanti. Ciò può includere l’ottimizzazione della qualità dell’aria interna attraverso una buona ventilazione, la scelta di materiali non tossici e la creazione di ambienti luminosi e ben illuminati .

 

L’edilizia ecosostenibile non solo contribuisce alla riduzione dell’impatto ambientale ma può anche offrire vantaggi economici, come minori costi di  gestione e manutenzione degli edifici a lungo termine, nonché un miglioramento  dell’immagine e della reputazione delle organizzazioni che adottano tali pratiche.

È importante notare che l’edilizia ecosostenibile non si applica solo ai nuovi edifici, ma può essere integrata anche in progetti di ristrutturazione e riqualificazione degli edifici esistenti per renderli più efficienti dal punto di vista energetico e quindi sostenibili per la comunità.

di Giovanni Romani, agente immobiliare per il Magazine Condominio Zero Problemi

Diritto di querela, laddove la persona offesa da reato sia il condominio stesso

Negli articoli pubblicati nei numeri precedenti abbiamo esaminato alcuni reati che, non di rado, vengono commessi in ambito condominiale. In questa occasione, invece, vogliamo approfondire il tema della titolarità del diritto di querela, laddove la persona offesa da reato sia il condominio stesso.

A una prima impressione, si sarebbe portati a rispondere affermando, semplicemente, che il diritto di querela nell’interesse del condominio spetti all’amministratore o al singolo condomino indifferentemente (si pensi alle querele per reati di furto di beni comuni, di violazione di domicilio di spazi condominiali o di appropriazione indebita di fondi condominiali). In realtà la risposta richiede delle importanti precisazioni per non incorrere in querele invalide.

Ebbene, per quanto concerne l’amministratore, questi potrà sporgere validamente la querela solo nel caso in cui sia munito di apposito mandato conferitogli dall’assemblea. É da escludersi pertanto che all’amministratore del condominio spetti un tale potere, automaticamente connesso alla carica.

Infatti, “…il condominio negli edifici non è un soggetto giuridico dotato di una personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, ma uno strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini, attraverso il quale deve esprimersi la volontà di sporgere querela; ne consegue che la presentazione di quest’ultima in relazione ad un reato commesso in danno del patrimonio condominiale presuppone uno specifico incarico conferito all’amministratore dall’assemblea dei condomini…” (Cassazione penale sez. IV – 23/09/2021, n. 36545 in Diritto & Giustizia 2021, 11 ottobre).

Ed ancora: “Per la proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un condominio di edifici occorre la preventiva unanime manifestazione di volontà da parte dei condomini così da conferire all’amministratore l’incarico di perseguire penalmente un soggetto per un fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune (nella specie, l’imputato, era accusato del reato di appropriazione indebita aggravata e continuata in danno di un condominio, essendosi appropriato, in qualità di amministratore condominiale, di un ingente somma di denaro)” (Cassazione penale sez. II – 13/02/2020, n. 12410, in Diritto & Giustizia 2020, 20 aprile)

Pertanto, in mancanza di una preventiva unanime manifestazione di volontà da parte dei condomini, l’amministratore non è legittimato a proporre querela, pur se relativa ad un fatto lesivo del patrimonio condominiale “…in quanto la querela, costituendo un presupposto della validità dell’esercizio dell’azione penale e non un semplice mezzo di cautela processuale o sostanziale, non può essere ricompresa fra gli atti di gestione dei beni o conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio spettanti all’amministratore…” (Cassazione penale sez. II – 29/11/2000, n. 6 in Arch. nuova proc. pen. 2001, 177).

 

Con riferimento, invece, al singolo condomino, in un primo tempo si era affermato in giurisprudenza il principio secondo cui questi non fosse legittimato a presentare querela per un reato lesivo dei beni comuni del condominio.

Tanto ciò è vero che, proprio in applicazione di tale principio, la Cassazione aveva annullato la condanna (dal reato di violazione di domicilio) di un imputato che si era introdotto clandestinamente nel sottoscala di un edificio, dove era stato scoperto e successivamente querelato da un condomino (Cassazione penale sez. V – 26/11/2010, n. 6197 Diritto e Giustizia online 2011).

Tale principio è stato ribadito dalla Cassazione secondo cui “non è valida la querela proposta dal singolo condomino per un reato che sia commesso in danno di parti comuni dell’edificio, in quanto il condominio è strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini e l’espressione della volontà di presentare querela passa attraverso detto strumento di gestione collegiale…” (Cassazione penale sez. VI – 03/07/2019, n. 41978 in Diritto & Giustizia 2019, 14 ottobre).

Tuttavia più recentemente, la Cassazione è tornata sui propri passi avendo affermato che “il singolo condomino è legittimato alla proposizione della querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune. [Fattispecie relativa all’appropriazione indebita, da parte dell’amministratore cessato dalla carica, del denaro versato dai condomini per le spese comuni] “(Cassazione penale sez. II – 27/10/2021, n. 45902 in Cassazione Penale 2022, 5, 1878).

Pertanto, alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali, sembrerebbe essere superato il precedente orientamento, come espresso dalla richiamata sentenza n. 6197/2011.

Non è escluso, tuttavia, che in ragione di tale contrasto tra le sezioni semplici della Cassazione, le Sezioni Unite siano presto chiamante a porre fine al contrasto, indicando il principio di diritto corretto.

Ad ogni buon conto, nel frattempo, onde evitare di incorrere nel difetto di querela appare opportuno che questa sia presentata dall’amministratore a seguito di espressa delibera condominiale.

di Mirko Scorsone, avvocato penalista per il Magazine Condominio Zero Problemi

L'amministratore di condominio può essere il Responsabile ai Lavori?

Il responsabile dei lavori e il condominiale
Il responsabile dei lavori è ruolo molto delicato a cui spettano diversi compiti e che non obbligatoriamente deve essere l’amministratore del condominio che effettua i lavori. Ecco cosa c’è da sapere se state per affrontare delle opere di ristrutturazione.

 

Oggi l’amministratore è la figura chiave nel processo assembleare e condominiale: è colui che gestisce, organizza e disciplina la vita condominiale. Deve possedere numerose qualità, oltre ad avere competenze giuridiche, contabili, fiscali e tecniche, senza però sostituirsi alle figure di professionisti quali l’avvocato, il commercialista, l’architetto o l’ingegnere.

Esiste però un solo caso nel quale l’amministratore può interpretare il ruolo di una figura esterna al processo condominiale, ed è quella del responsabile dei lavori nel processo edilizio in caso di opere di manutenzione o di ristrutturazioni condominiali.

L’articolo 89 del dlgs. 81/08 sulla sicurezza dei cantieri definisce due soggetti: il committente ed il responsabile dei lavori:

  • Il committente: è il soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata;
  • Il responsabile dei lavori: è il soggetto incaricato alla progettazione o al controllo dell’esecuzione dell’opera da eseguirsi.

Occorre fare chiarezza sulla figura dell’amministratore nella veste di responsabile dei lavori, sul suo ruolo nel processo edilizio e sulle responsabilità civili e penali che ne derivano.

Nel nostro caso il committente è il condominio. L’assemblea dei condomini decide se e quali lavori realizzare e, in seguito, l’amministratore, ai sensi dell’art. 1131 c.c., assume la rappresentanza del condominio nei confronti dei terzi. Ad esso compete, dunque, la stipula materiale del contratto e, soprattutto, la cura della corretta esecuzione dello stesso, sotto il profilo dell’esercizio dei poteri, dei doveri e degli oneri legislativamente posti a carico della parte committente. Dovrà inoltre coordinare e valutare le figure professionali incaricate e l’intero processo edilizio.

Non si tratta di un obbligo, ma solo nel caso di una mancata delibera assembleare che nomini esplicitamente un responsabile dei lavori esterno, l’amministratore, in quanto mandatario dell’assemblea e rappresentante dei partecipanti al condominio, assume il ruolo di responsabile dei lavori e tutti gli obblighi e le responsabilità ad esso collegate.

È importante che chi ricopre questo ruolo abbia una formazione completa ed un’adeguata conoscenza dello svolgimento delle fasi che compongono il processo edilizio dall’inizio alla fine, poiché sono a rischio la tutela e la salute dei lavoratori.

di Isabella Del Pozzo, architetto per il Magazine Condominio Zero Problemi

Beni condominiali e criteri di ripartizione

Quali sono i beni comuni in condominio e chi ne paga le spese

C’è spesso molta confusione circa i beni comuni e soprattutto sulla ripartizione delle relative spese. La giurisprudenza è però chiara su chi debba pagare la manutenzione dei beni comuni, compresi quelli che ricadano all’interno di una singola proprietà.

È circostanza nota che all’interno di un condominio, ai sensi dell’art. 1117 codice civile sono da considerarsi “oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio”, tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate.

L’elencazione di tali beni comuni prosegue con le aree destinate ai servizi in comune, come parcheggi, locali per la portineria, lavanderia, stenditoi e sottotetti destinati all’uso comune, ma anche le opere, installazioni e manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come ascensori, pozzi, cisterne, impianti idrici e fognari, sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, l’energia elettrica, il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo.

Tutti gli oneri di manutenzione delle parti ed opere comuni appena elencate, ricadono indistintamente su tutti i condomini, in ragione dei millesimi di proprietà posseduti, ma ben può accadere che alcune di esse ricadano all’interno o al confine di proprietà esclusive, generando così dubbi in merito alla relativa ripartizione delle spese.

A volte capita che alcuni pilastri o travi portanti risultino inseriti in proprietà individuali o ne delimitino il perimetro. Motivo per cui i condomini che vedono una colonna od un muro portante all’interno della propria abitazione lo ritengono comune e, al contrario, gli altri condomini in ragione della loro ubicazione li considerino di propria pertinenza esclusiva nel tentativo di sottrarsi dal contribuire alla relativa manutenzione. Sul punto pare opportuno fare chiarezza.

Per dirimere la vicenda la giurisprudenza, con condivisibile ragionamento, ha inteso valorizzare la funzione portante di pilastri e travi, specificando che detti elementi svolgono la loro funzione all’interno dell’edificio per la loro intera estensione, ossia dalle fondamenta sino alla copertura dell’edificio, comprese eventuali sopraelevazioni successivamente realizzate e prescindendo dalla posizione arretrata o avanzata che abbiano, non essendo ammissibili frazionamenti di sorta.

La natura comune di muri e pilastri è dunque determinata dalla loro funzione, essendo irrilevante la loro collocazione, per cui sarà da considerarsi comune anche il pilastro ricadente all’interno di una porzione di proprietà esclusiva; tale principio vale anche per gli architravi.

Tale caratteristica contraddistingue anche le facciate ed i pannelli perimetrali del fabbricato, da intendersi in tutti loro lati ivi comprese le facciate interne e muri perimetrali dei cortili, da considerarsi strutture essenziali che svolgono funzione portante e non solo estetica per l’edificio, dunque comune, per cui le relative spese di manutenzione saranno da ripartire tra condomini in misura proporzionale al valore delle rispettive proprietà, espresso in millesimi.

In ragione della comune funzione portante ed estetica, anche le spese per le facciate non possono essere suddivise per porzioni di piano o per singola unità.

Si ricorda infine che, analogamente, l’eventuale parapetto in muratura dei balconi dovrà essere considerato di natura comune con conseguente ripartizione delle spese, mentre andranno escluse dalla ripartizione comune le spese relative alla manutenzione di finestre, luci e vedute che svolgono invece una funzione esclusiva a beneficio del proprietario della porzione di piano cui ineriscono.

di Fabrizio Pacileo, avvocato per il Magazine Condominio Zero Problemi

E' possibile collocare dei ripetitori telefonici nei condomini?

Ripetitori telefonici sul lastrico solare, quali sono i rischi e quali leopportunità

Affrontiamo il tema della possibilità per il condominio di autorizzare l’installazione di ripetitori telefonici sul lastrico solare, anche alla luce della possibile evoluzione normativa in tema di emissioni elettromagnetiche.

Basta alzare lo sguardo al cielo per apprezzare come sempre più edifici condominiali ospitino sui propri lastrici solari dei ripetitori telefonici, comunemente detti “stazioni radio base”. Per valutare gli effetti derivanti dalla decisione di ospitare in ambito condominiale queste infrastrutture di comunicazione occorre considerare i possibili benefici e gli altrettanto possibili inconvenienti che possono derivare dalla loro messa in opera.

La possibilità di installare gli impianti telefonici sui lastrici solari è un’opportunità che ha delle sicure ricadute positive sotto il profilo economico per i condomini: le società concessionarie di telefonia mobile sono spesso disposte a corrispondere significativi importi a titolo di canoni di locazione per gli spazi che andranno ad ospitare i ripetitori.

Ma quali sono i possibili inconvenienti? Se per un verso, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha sinora preso posizione effettiva in merito alle possibili incidenze negative per l’ambiente e per la salute umana, va anche detto che questi ripetitori telefonici rischiano di incidere sull’immagine esteriore dell’edificio e, quindi, sul valore della proprietà immobiliare.

Pur essendo previsto un procedimento autorizzativo molto snello, secondo le previsioni del codice delle comunicazioni elettroniche – decreto legislativo n. 259/2003 – che stabiliscono, oggi, a seguito delle recenti modifiche intervenute per effetto del decreto “semplificazioni” d.l. n.76/2021, la possibilità di convogliare nell’unico procedimento autorizzativo tutti i pareri, intese nulla-osta etc. da parte delle amministrazioni interessate dal progetto, da esprimere eventualmente in sede di conferenza di servizi ex l. n. 241/1990, è per altro verso chiaro che l’installazione di un traliccio che ospita quattro, sei o più ripetitori telefonici è certamente in grado di generare emissioni elettromagnetiche.

Se le attribuzioni in materia di valutazioni paesaggistiche appartengono alle regioni e, per esse, ai Comuni che agiscono spesso per delega di funzioni regionali, sotto il profilo ambientale e di tutela della salute lo stesso codice delle comunicazioni elettroniche (decreto legislativo n. 259/2003) unitamente alla legge n. 36/2001, stabilisce limiti precisi in tema di esposizioni ai campi elettromagnetici che le Agenzie Regionali di protezione ambientale sono chiamate a verificare, onde evitare che l’installazione dei ripetitori in questione possa generare potenze tali da esporre a pericolo la salute dell’uomo.

Non è un mistero che, probabilmente anche sotto la pressione esercitata dai concessionari di telefonia mobile, vi siano state sin qui una serie di iniziative normative (o para-normative) tese a determinare un incremento dei limiti di esposizione alle emissioni elettromagnetiche consentiti. A oggi, il limite coincide con la misura pari al valore di 6 V/m (volt/metro). Ma se il legislatore dovesse cedere, com’è spesso accaduto nel recente passato, alle pressioni dei gestori, giungendo eventualmente a consentire emissioni molto più intense e in grado di interagire maggiormente con la popolazione residente nelle immediate vicinanze, cosa conviene fare? Accogliere le lusinghe dell’operatore di telefonia interessato ad installare l’antenna sul lastrico solare, oppure resistere alla tentazione economica a tutto vantaggio di una sicura riduzione dell’inquinamento elettromagnetico?

È anche proprio in considerazione di questa prospettiva, che si affaccia con sempre maggior frequenza sui tavoli del legislatore, che occorre probabilmente valutare l’effettiva convenienza della scelta da assumere, dal momento che assecondare l’interesse condominiale ad avere un’entrata economica fissa, che possa in qualche modo far fronte ai costi comuni, può certamente determinare una maggiore esposizione dei condomini al campo elettromagnetico generato dai ripetitori, i quali, nel prossimo futuro, ben potrebbero essere autorizzati ad emissioni di intensità più elevata rispetto a quanto oggi non consenta la stessa legislazione vigente.

di Carmine Genovese, avvocato per il Magazine Condominio Zero Problemi

Si può modificare un criterio di ripartizione delle spese?

È ormai consolidato, anche grazie a pronunce della Corte di Cassazione, che le delibere condominiali che modificano la ripartizione delle spese comuni senza ottenere l’unanimità dei condomini sono considerate nulle. La maggioranza in assemblea non è sufficiente senza il consenso unanime degli aventi diritto.

In particolare, risulta ormai pacifico, anche in virtù di alcune sentenze della Corte di Cassazione, che le delibere dell’assemblea condominiale che hanno per oggetto la ripartizione delle spese comuni, con cui viene derogato il criterio legale di ripartizione della spesa oggetto di delibera, se adottate senza l’unanimità dei condomini sono nulle. Non basta, infatti, la delibera a maggioranza degli intervenuti in assemblea se non c’è l’unanimità degli aventi diritto.

D’altro canto, i criteri di ripartizione di una qualsiasi spesa condominiale effettuata in modo diverso da quanto è stabilito dalle norme di riferimento, anche se deliberata all’unanimità dell’assemblea, cioè con mille millesimi ha valore solo nei confronti di coloro che l’hanno deliberata.

È soggetta, quindi, alla regola della relatività degli effetti del contratto e limitata alle sole parti che la stipulano e non vincola assolutamente i nuovi proprietari.

Questi ultimi possono essere vincolati esclusivamente attraverso un nuovo contratto o degli altri strumenti negoziali previsti dal nostro ordinamento. Questo è quanto sancisce una recente sentenza della corte di cassazione, la n. 21086 del 04/07/2022.

Il disposto di questa sentenza ci porta ad effettuare una riflessione importante, che è quella di consigliare sempre ai nostri condomini, ormai sempre più clienti e meno condomini, a ripartire le spese comuni adottando il criterio legale, non lasciandosi influenzare dalle situazioni contingenti in cui ci si trova.

Situazioni che possono portare l’assemblea a prendere delibere che prevedano ripartizioni fantasiose, spesso proposte dal condomino “saccente” di turno, che avranno come logica conseguenze interminabili conteziosi giudiziari e notevoli esborsi di denaro.

Per riuscire, però, nell’arduo intento bisogna avere le necessarie competenze non solo giuridiche, un’adeguata esperienza nel condurre l’assemblea, la giusta combinazione tra professionalità e passione nell’amministrazione del condominio e, soprattutto, possedere quelle capacità di leadership per far prevalere i consigli dello specialista, che non tutti possiedono.

Solo così si riuscirà nell’intento di gestire in modo corretto l’assemblea senza il rischio di essere trascinati dagli eventi e vedersi soccombere annuendo e accettando decisioni non corrette.

Per fortuna gli amministratori non sono tutti uguali!

di Claudio Buzzi, per il Magazine Condominio Zero Problemi

Decreto Ingiuntivo e morosità

Nessun decreto ingiuntivo all’assegnataria dell’immobile “morosa”

L’individuazione del soggetto proprietario dell’unità immobiliare è attività necessaria per l’amministratore non solo per poter convocare validamente l’assemblea ma anche e soprattutto per poter richiedere il pagamento degli oneri condominiali ai soggetti legalmente onerati, essendo ormai orientamento consolidato della giurisprudenza che solo al proprietario (o ad altro titolare di diritto reale, in solido) può essere ingiunto il pagamento degli oneri condominiali mediante il decreto ingiuntivo (Corte di Cassazione, ordinanza n. 16613/2022).

A tale scopo l’articolo 1130, comma 1, n. 6 del codice civile prevede che l’amministratore deve curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei proprietari, dei titolari dei diritti reali e dei diritti personali, ed altre informazioni utili.

Per essere utili, le informazioni in esso contenute devono essere corrette ed aggiornate mediante le comunicazioni in forma scritta, da parte degli onerati, delle variazioni all’amministratore entro 60 giorni.

 

IL CASO

Il tribunale aveva accolto l’appello proposto dall’assegnataria di un immobile contro la sentenza del giudice di pace con la quale era stata respinta l’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio nei confronti dell’appellante per il pagamento delle spese condominiali.

Il tribunale aveva ritenuto fondato il motivo di appello relativo al difetto di legittimazione passiva rispetto alle pretese creditorie avanzate dal Condominio, essendo l’appellante mera assegnataria della casa familiare – di proprietà esclusiva del coniuge – a seguito di separazione personale.

Il soggetto assegnatario della casa coniugale acquista un semplice diritto di godimento sul bene (il che impedirebbe peraltro l’applicabilità del disposto dell’art. 67 disp. att. c.c., che riguarda il diritto reale di usufrutto) inidoneo a far gravare sull’assegnatario medesimo l’obbligo di pagamento delle spese condominiali nei confronti del condominio (altro sono i rapporti interni tra l’assegnatario e il proprietario).

Il tribunale, perciò, riformava la sentenza di primo grado e revocava il decreto ingiuntivo intimato dal Condominio.

Dello stesso tenore l’ordinanza della Corte di Cassazione con la quale rigettava il ricorso del condominio nell’assunto che “l’amministratore di condominio ha diritto di riscuotere i contributi per la manutenzione e per l’esercizio delle parti e dei servizi comuni esclusivamente da ciascun condomino, e cioè dall’effettivo proprietario o titolare di diritto reale sulla singola unità immobiliare, sicché è esclusa un’azione diretta nei confronti del coniuge o del convivente assegnatario dell’unità immobiliare adibita a casa familiare, configurandosi il diritto al godimento della casa familiare come diritto personale di godimento ‘sui generis’”.

 

LE MOTIVAZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE

L’occupante di un immobile può essere il titolare del diritto di proprietà oppure di altro diritto reale (ad es. di usufrutto) oppure il titolare di un diritto personale di godimento come lo è il conduttore, il comodatario (parti, rispettivamente, del contrato di locazione e di comodato), o l’assegnatario di un immobile a seguito di sentenza di separazione o di divorzio.  I titolari di diritti reali sono obbligati per il pagamento degli oneri condominiali nei confronti del condominio.

L’usufruttuario ai sensi dell’art. 67 disp. att. cod. civ., risponde solidalmente con il nudo proprietario … per il pagamento dei contributi dovuti all’amministrazione condominiale”. L’amministratore può chiedere il pagamento sia all’uno che all’altro, indifferentemente, e per l’intero importo, a prescindere dagli accordi tra loro convenuti in merito al pagamento delle spese condominiali.

Chiaramente il pagamento di uno dei due libera dal debito anche l’altro nei confronti del condominio ma non lo libera dal dovere di restituire al pagante quanto di sua competenza in base a quanto stabilito negli accordi o alla legge.

In caso di perpetrata morosità, la richiesta di ingiunzione di pagamento potrà essere effettuata nei confronti di entrambi, in solido. Stessa regola vale per i comproprietari (ad esempio i coeredi).

Per quanto riguarda invece gli occupanti titolari di un diritto personale di godimento, essi non assumono obblighi verso il condominio ma solo nei confronti del proprietario dell’immobile il quale risponderà verso il condominio degli oneri da questi non pagati, salvo il regresso.

In caso di omesso pagamento degli oneri condominiali, pertanto, l’amministratore dovrà accertare la tipologia delle spese non pagate dall’occupante e se egli sia il proprietario perché se richiedesse un decreto ingiuntivo contro un occupante rischierebbe una opposizione allo stesso con conseguente sua revoca.

In caso di ripartizione delle spese condominiali inerenti, ad esempio, alla casa familiare oggetto di assegnazione in sede di separazione o di divorzio, occorre distinguere tra le spese che sono dovute dal coniuge assegnatario il quale utilizza in concreto l’immobile (i contributi inerenti alla manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’alloggio familiare o ai servizi comuni come, per esempio, il servizio di pulizia, di riscaldamento) e quelle che rimangono a carico del coniuge proprietario esclusivo dell’immobile (per esempio, spese di manutenzione straordinaria) spese che – in mancanza di un provvedimento espresso del giudice della separazione o del divorzio, che ne accolli l’onere al coniuge proprietario – vanno a carico del coniuge assegnatario.

Il diritto di godimento della casa familiare spettante al coniuge o al convivente affidatario di figli minori (o convivente con figli maggiorenni non economicamente autosufficienti), in forza di provvedimento giudiziale opponibile anche ai terzi è, conferma la suprema corte, un diritto personale di godimento sui generis sicché esso non rileva ai fini della pretesa dell’amministratore condominiale – ai sensi dell’art. 1123 c.c., dell’art. 1130 c.c., n. 3, e dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 1 – volta a riscuotere i contributi e le spese per la manutenzione delle cose comuni ed i servizi nell’interesse comune, restando esclusa un’azione diretta nei confronti dell’assegnatario della singola unità immobiliare.

Stessa regola per il conduttore o il comodatario.

Anche in tali situazioni, l’amministratore del condominio ha diritto di riscuotere i contributi e le spese sostenute nell’interesse comune direttamente ed esclusivamente da ciascun condomino, e cioè di ciascuno dei titolari di diritti reali sulle singole unità immobiliari, restando esclusa un’azione diretta anche nei confronti del conduttore della singola unità immobiliare (contro il quale può invece agire in risoluzione il locatore, ove si tratti di oneri posti a carico del locatario sulla base del rapporto contrattuale fra loro intercorrente), tant’è che si afferma risolutivamente che “di fronte al condominio esistono solo i condomini” (Cass. 25 ottobre 2018, n. 27162Cass. 9 dicembre 2009, n. 25781Cass. 3 febbraio 1994, n. 1104).

Nella fattispecie sottoposta all’esame della corte di legittimità, si era confuso il rapporto corrente tra l’assegnatario della casa familiare e il proprietario dell’immobile assegnato ed il diverso profilo del rapporto corrente tra condominio e condomino tenuto al pagamento dei contributi.

Per cui, bene aveva fatto il giudice di merito a revocare il decreto ingiuntivo emesso nei confronti della ex moglie occupante non essendo lei la legittimata passiva ma bensì l’ex marito proprietario dell’appartamento.

Una ulteriore precisazione si rinviene, nell’ordinanza, con riferimento al condomino apparente colui, cioè, che con il suo comportamento ha indotto i condomini e l’amministratore, a credere di essere lui il proprietario.

Anche in tale caso per il recupero della quota di spese di competenza di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, è passivamente legittimato il vero proprietario di detta unità e non anche chi possa apparire tale, poiché difettano, nei rapporti fra condominio e singoli partecipanti ad esso, le condizioni per l’operatività del principio dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dell’affidamento del terzo in buona fede.

di Luana Taglioni, giornalista per il Magazine Condominio Zero Problemi    www.condominiozeroproblemi.it