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Le autorimesse condominiali

Prevenzione incendi nelle autorimesse
Scopri le normative per la prevenzione degli incendi nelle autorimesse e di quelle non soggette al deposito della S.C.I.A. antincendio

 

 Con l’emanazione dei nuovi decreti in ambito di prevenzione incendi, in riferimento all’attività di rischio autorimessa sono mutati i criteri di assoggettabilità che sanciscono se un’autorimessa sia soggetta o meno all’obbligo di presentazione delle istanze presso i competenti poli di prevenzione incendi.

Nel precedente quadro normativo, il limite di assoggettabilità era demandato al numero di posti auto (D.M. 1 febbraio 1986); di contro, l’attuale D.M. 15 maggio 2020, con il quale viene abrogato il precedente decreto, attribuisce l’assoggettabilità alla superficie lorda dell’autorimessa (pari o superiore a 300 mq).

Tale variazione ha contribuito a creare, in alcuni casi, un vuoto normativo comprendente quelle autorimesse che, per numero di posti auto sarebbero state soggette alla presentazione della SCIA antincendio, ma che per superficie lorda si ritrovano attualmente non più soggette a tale obbligo.

La lettera circolare DCPREV prot. n. 17496 del 18/12/2020 citata quale riferimento per le cosiddette autorimesse “sotto soglia” (di superficie lorda inferiore ai 300 mq), è stata emanata con lo scopo, tra gli altri, di fornire utili indicazioni ai fini della prevenzione incendi e sicurezza antincendio anche per le autorimesse con superficie non superiore a 300 mq.

Tali indicazioni non assumono carattere cogente e, di conseguenza, non sanciscono alcun obbligo, ma hanno carattere universalmente riconosciuto dagli Organi al fine di stabilire se un’attività, seppur non soggetta ad obblighi di legge, sia correttamente progettata, gestita, manutenuta e sicura nei confronti di un incendio.

Di conseguenza, seppur l’allineamento alle prescrizioni ivi riportate non costituisca un obbligo di legge propriamente detto, rimane fortemente consigliato dal punto di vista tecnico, garantendo ai condòmini una posizione di forza e di maggiore sicurezza nei confronti di un ipotetico evento.

di Elena Marandino, ingegnere per il Magazine Condominio Zero Problemi

Documenti per la sicurezza degli impianti condominiali

Sicurezza Impianti: facciamo il punto

Gli impianti devono essere certificati dalla ditta che li realizza ma in molti casi non si è in possesso della documentazione. Cosa fare per ottenerla?

Le normative hanno bisogno di essere aggiornate con una certa regolarità affinché la loro efficacia possa sempre essere garantita, ed in questa ottica andiamo ad analizzare l’evoluzione delle norme attinenti alla sicurezza degli impianti relativi agli edifici adibiti ad uso civile, ad attività produttive, al commercio, al terziario e ad altri usi.

L’attuale D.M. 37/08 ha sostituito la precedente Legge n.46 del 05 marzo 1990, che all’art. 9 stabiliva che l’impresa installatrice, al termine dei lavori, è tenuta a rilasciare al committente la dichiarazione di conformità dell’impianto realizzato.

Prima dell’entrata in vigore della Legge n. 46/90 si faceva riferimento alle norme tecniche di settore UNI, CEI, ecc. ecc..

Avere un impianto certificato è cosa molto importante in primis per la nostra e l’altrui sicurezza, ma anche per molte altre ragioni come ad esempio per ottenere la c.d. “ABITABILITA’” oppure per aggiornarla in seguito a lavori eseguiti, ma anche per avviare un’attività commerciale ecc. ecc..

Ma come facciamo a sapere se gli impianti installati nella nostra unità immobiliare (appartamento, ufficio, negozio, magazzino, …) in mancanza del Certificato di Conformità, sono a norma e quindi ritenuti sicuri? La risposta dipende principalmente dalla data di realizzazione dell’impianto.

Sarà un tecnico qualificato a dirlo dopo aver eseguito un accurato sopralluogo, trovandosi di fronte 3 diversi scenari:

  • Impianto realizzato prima dell’entrata in vigore della Legge n. 46 del 05/03/1990;
  • Impianto realizzato nel periodo di vigenza della Legge n. 46 del 05/03/1990;
  • Impianto realizzato dopo l’entrata in vigore del D.M. 37 del 22 gennaio 2008.

Individuato il periodo di realizzazione dell’impianto ed eseguite le opportune verifiche strumentali del caso, nonché le eventuali manutenzioni necessarie il tecnico potrà certificare l’impianto rilasciando:

  • Relazione Tecnica di verifica dell’impianto secondo la propria norma tecnica di settore;
  • Dichiarazione di Rispondenza (c.d. Di.Ri.) ai sensi del D.M. 37/08, art. 7 comma 6;
  • Dichiarazione di Conformità dell’impianto (c.d. Di.Co.) ai sensi del D.M. 37/08, art. 7 comma 1.

Federico Tudini, geometra per il Magazine Condominio Zero Problemi

La sicurezza informatica nel condominio

Sicurezza informatica, il vero problema è la formazione del personale

Proteggi la tua azienda dagli attacchi informatici con la formazione sulla sicurezza informatica. Scopri di più sul GDPR e l’importanza della cybersecurity.

Se pensate di essere al sicuro dalle attenzioni degli hacker perché la vostra è un’impresa a gestione familiare o con pochi dipendenti vi sbagliate. L’aumento degli attacchi informatici verso le micro e piccole aziende sottolinea quanto sia remunerativo per malintenzionati scegliere la tipologia di attacco basata sul ransomware, virus che rendono inaccessibili i file a cui seguono richieste di riscatto per ripristinarli.

Il Regolamento Europeo 2016/679 (il GDPR) assegna al titolare del trattamento dei dati il compito di individuare e implementare le misure adeguate, tecniche e organizzative, per proteggerli. La sicurezza del sistema informatico di una piccola attività dipende dalle misure tecniche adottate ma soprattutto dalla formazione del personale che non può prescindere dall’utilizzo delle mail, strumento indispensabile ma che espone l’azienda a rischi di attacco come trojan hourse o come il phishing.

E’ proprio l’art. 29 del GDPR a ribadire l’obbligatorietà della formazione del personale attraverso corsi tenuti da docenti certificati, Cybersecurity Specialist, come quelli messi a disposizione da Epra: «Ci sono aziende che sottovalutano la formazione del personale finché non si scontrano con attacchi informatici che bloccano il lavoro per mesi.

La maggior parte di queste situazioni sarebbero facilmente evitabili se il personale fosse formato» spiega Matteo Marini di Epra. «Con una spesa minima si eviterebbero danni di migliaia di euro». I corsi sulla sicurezza informatica tenuti da Epra insegnano le regole e i comportamenti da adottare quotidianamente, come l’utilizzo di backup o l’organizzazione della postazione di lavoro, che possono essere apprese solo con corsi specifici.

Particolare importanza oltre alle misure tecniche come l’utilizzo di Nas, Firewall e server hanno la criptazione dei dati, la gestione delle password ma soprattutto la capacità di saper riconoscere una mail pericolosa attraverso piccoli ma fondamentali accorgimenti. Sono infatti le mail e l’utilizzo errato dei dispositivi informatici, soprattutto con lo smartworking, a rappresentare il pericolo principale per un’azienda.

Qualunque apparato installato atto a fornire sicurezza informatica di tipo perimetrale (firewall) o di tipo logico (antiviurs) risulta inutile se non è affiancata da un uso responsabile e consapevole dei dispositivi e dei software da parte del personale, essendo statisticamente la componente umana l’anello debole della catena di sicurezza.

del dott. Matteo Marini per il Magazine Condominio Zero Problemi

La prevenzione incendio nel condominio

Prevenzione incendi: ecco i documenti necessari

Gli ultimi aggiornamenti normativi ai fini della prevenzione incendi di impianti termici privati e condominiali hanno visto l’evolversi dei decreti e da questo, una specifica attenzione non solo alle attività soggette ma anche ai diretti responsabili che ne garantiscono il corretto funzionamento ai fini amministrativi legali ed impiantistici.

Cosa sta cambiando: L’avvento del DPR 151/2011 che regolamenta i procedimenti relativi alla prevenzione incendi ha introdotto importanti modifiche che interessano anche condomini residenziali, comprensivo delle autorimesse e centrali termiche di loro pertinenza. 8da non dimenticare che l’ottenimento di titoli autorizzativi è obbligatorio da molti molti anni, ahimè)

Tali modifiche hanno riguardato sia i criteri di classificazione, sia i procedimenti necessari per la presentazione della Segnalazione Certificata di Inizio Attività antincendio (SCIA antincendio) e quindi dell’iter di adeguamento antincendio ed ottenimento di titolo autorizzativo. (S.C.I.A.)

Le modifiche introdotte dal nuovo DPR, non alterano né le regole tecniche a cui gli edifici (autorimesse e centrali termiche di competenza) devono sottostare né, di conseguenza, le opere di adeguamento necessarie, bensì introducono nuovi criteri procedurali nello specifico la cosiddetta “Segnalazione Certificata di Inizio Attività antincendio” (SCIA antincendio) che ha sostituito e superato il Certificato di Prevenzione Incendi (C.P.I.).

Svolgendo questo lavoro da parecchi anni, spesso mi accorgo di quanto, molti titolari di attività soggette VV.F. sottovalutino l’importanza di essere in ordine con codesti documenti.

Si tratta di attività antincendio (CENTRALI TERMICHE) che a prima vista possono sembrare semplici ma che invece possono rivelarsi molto pericolose se gestite male.

Il timore legato alla mancata sicurezza della centrale termica (ORMAI DIVENUTO OGGETTO DI ORDINE PENALE) è sensato.

 

Il ruolo dell’amministratore del condominio

La attuale normativa ha radicalmente mutato il ruolo e le modalità dei controlli effettuati dai Vigili del Fuoco. Rispetto alla previgente normativa, che prevedeva il Rilascio del Certificato Prevenzione Incendi a seguito di sopralluoghi e verifica delle documentazioni fornite, nel DPR n.151 del 1.08.2011 i Vigili del Fuoco effettuano i controlli ex post, cioè a seguito presentazione di SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio attività), nei quali potrà essere accertata una inadempienza di natura penale e/o amministrativa.

La specifica delle violazioni è prevista nell’art.20 del D.Lgs 8 marzo 2006, n.139
 e riguarda mancati adempimenti relativi ai procedimenti di prevenzione incendi, ed in particolare:

Le responsabilità del titolare dell’attività:

Le inadempienze a carico del responsabile dell’attività si configurano in due casi:
– Omessa presentazione della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività).
L’attività viene esercita, rientra tra quelle soggetta a controllo di prevenzione incendi ed il responsabile non è in grado di dimostrare l’avvenuta presentazione della SCIA, mediante ricevuta   in fondo al modello PIN 2 – 2014 SCIA, oppure mediante ricevuta invio PEC;

– Omessa presentazione di attestazione di rinnovo periodico in assenza di variazioni di cui all’art.5 del DPR n.151 del 1.08.2011.
L’attività viene esercita, rientra tra quelle soggette a controllo di prevenzione incendi, è in possesso di una SCIA o Certificato Prevenzione Incendi scaduti ed il responsabile non è in grado di dimostrare l’avvenuta richiesta di rinnovo periodico attestazione di rinnovo, mediante ricevuta in fondo al modello PIN 3– 2014 RINNOVO PERIODICO oppure mediante ricevuta invio PEC.
In tali casi si applica l’art.20 del DLeg.vo n.139/2006 che prevede “Chiunque,  in  qualità  di  titolare  di  una  delle attività soggette  al  rilascio del certificato di prevenzione incendi, ometta di  richiedere  il  rilascio o il rinnovo del certificato medesimo è punito  con  l’arresto  sino ad un anno o con l’ammenda da 258 euro a 2.582 euro“. Si tratta un reato Penale a carico del responsabile (titolare, responsabile legale, dirigente ecc.).

La formalizzazione dell’inadempienza avviene secondo le procedure previste dal Codice di procedure Penale e prevede la verbalizzazione dell’accertamento e la notizia di reato alla Autorità Giudiziaria, con particolare riferimento alla identificazione della persona responsabile e del reato individuato.

Le responsabilità di altri soggetti:

Oltre al responsabile dell’attività, la normativa prevede delle responsabilità aggiuntive derivanti dalla attestazione di fatti non corrispondenti al vero.
Sempre l’art. 20, 2^ comma, del DLg.vo n.139/2006 prevede “Chiunque, nelle certificazioni e dichiarazioni rese ai fini del rilascio o del rinnovo del certificato di prevenzione incendi, attesti fatti non rispondenti al vero è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da 103 euro a 516 euro. La stessa pena si applica a chi falsifica o altera le certificazioni e dichiarazioni medesime”.
Si tratta un reato penale, in cui si possono individuare attestazioni non veritiere (falso ideologico) ovvero contraffazione di documentazione (falso materiale) nella redazione dei modelli previsti, la cui responsabilità viene attribuita ad altri soggetti che intervengono nel procedimento, in particolare il professionista abilitato, il professionista abilitato nel campo antincendio, ditte installatrici nel campo degli impianti.

Provvedimenti amministrativi  ed eventuale sospensione dell’attività
Oltre alle sanzioni penali previste, è previsto un altro possibile provvedimento : la sospensione dell’attività

Sempre l’art.20 del DLeg.vo n.139/2006 prevede che “Ferme  restando  le sanzioni penali previste dalle disposizioni vigenti, il  prefetto  può  disporre  la sospensione dell’attività nelle  ipotesi in cui i soggetti responsabili omettano di richiedere: il rilascio ovvero il rinnovo del certificato di prevenzione incendi; i servizi  di  vigilanza  nei  locali  di  pubblico  spettacolo  ed intrattenimento e nelle strutture caratterizzate da notevole presenza di  pubblico per i quali i servizi medesimi sono obbligatori. La sospensione  è disposta fino all’adempimento dell’obbligo”.

In genere la sospensione dell’attività la valuta il Prefetto della Provincia di competenza, a seguito di valutazione dei pericoli per la pubblica e privata incolumità.
Da ultimo, ma non meno importante, la mancanza della SCIA viene comunicata al Sindaco del territorio in cui insiste l’attività, che a sua volta valuta ulteriori aspetti connessi all’agibilità, compatibilità con regolamenti urbanistici, edilizi ecc. nonché valuta la emissione di provvedimenti amministrativi di competenza (revoche di licenze, agibilità, prescrizioni ecc.).

 

Adeguamento INAIL (ex. ISPESL)

Se vi state chiedendo cos’è la pratica INAIL proviamo a ricordarvelo dicendovi che è entrata in vigore sostituendo la vecchia ISPESL, acronimo di Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro. La sua funzione è quella di controllare, fornire dati, fornire consulenza, assistere, formare e informare sulla prevenzione degli infortuni e delle malattie legate al lavoro. Fondamentalmente il ruolo svolto riguardava la tutela dei lavoratori sul luogo di lavoro, rendendolo più sicuro.

Con la legge nº78 del 31 maggio del 2010, l’ISPESL venne soppresso e così tutte le sue funzioni, a partire da quella data, vennero attribuite all’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione per gli Infortuni sul Lavoro).

Cos’è la pratica INAIL

La denuncia o pratica INAIL consiste nell’obbligo previsto dalla legge di far rispettare determinati requisiti di sicurezza a tutti gli impianti termici che hanno una potenzialità superiore ai 35 kW. (impianti a pressione, che si tratti di impianti a vaso chiuso che aperto)

I parametri necessari per definire la sicurezza di un impianto di riscaldamento ad acqua calda pressurizzata, sono indicati nel Titolo II del Decreto Ministeriale del 1º dicembre del 1975.

In questo Decreto viene affermato che alcune tipologie di impianti (poi vedremo nello specifico quali) devono essere realizzati ed installati garantendo la stabilità anche in condizioni di massima pressione, in base all’attività che devono svolgere per espletare la loro funzione.

Nella fattispecie, casi più noti come impianti a vaso aperto (presenza di vaso di espansione, tubo di scurezza, tubo di carico, dispositivi a bordo caldaia) – impianti a vaso chiuso (presenza di vaso di espansione, valvola di sicurezza, valvola scarico termico o valvola intercettazione combustibile, pressostati di massima e minima, dispositivi a bordo caldaia)

Questa regola vale per:

  • i generatori di calore che vengono alimentati con il combustibile (liquido, solido o gas);
  • i generatori di vapore;
  • gli impianti di riscaldamento che utilizzano acqua calda sotto pressione.

 

Quando serve la pratica INAIL

Come già accennato questa pratica è obbligatoria per legge nel caso di impianti termici che hanno una potenzialità superiore ai 35 kW. Oltre ai casi che abbiamo elencato sopra, esistono anche altre fattispecie per le quali è prevista l’obbligatorietà di denunciare l’impianto all’INAIL, si tratta dei casi in cui vi è una nuova installazione di un impianto, modifiche riguardanti i dispositivi di sicurezza dei generatori o anche nel caso di modifiche apportate al generatore che aumentano il potenziamento dell’impianto.

La denuncia dell’impianto all’INAIL va fatta prima dell’inizio della costruzione o del potenziamento del generatore. L’incaricato ad effettuare questa denuncia è l’installatore che deve presentare, oltre alla richiesta, anche un progetto sottoscritto da un professionista come un ingegnere oppure un tecnico con l’abilitazione a svolgere questa funzione.

Dopo aver ricevuto la pratica, l’INAIL procede con le dovute verifiche sul progetto presentato e in seguito comunica la decisione all’interessato. Se il responso ha esito positivo, l’INAIL provvederà ad omologare l’impianto termico.
Inoltre, per alcune categorie di impianti termici è prevista, con decorrenza quinquennale, la verifica da parte della stessa INAIL dell’efficienza dei sistemi di sicurezza e di controllo. Questa fattispecie si concretizza per tutti gli impianti termici centralizzati installati nei condomini (dove vige l’obbligo di nomina dell’amministratore) o anche per tutti gli impianti che hanno una potenza dei focolai superiore a 116 kW.

Tuttavia una Circolare INAIL del 14 dicembre 2010 ha introdotto la Raccolta-R del 2009 (sostituisce le vecchia Raccolta-R dell’82) che fa riferimento agli impianti di riscaldamento centralizzati che adoperano acqua calda (con temperatura 110º) pressurizzata e con potenza superiore al limite concesso dal Decreto Ministeriale del 1975.

In sostanza la Raccolta-R propone dei sistemi automatici volti ad assicurare che non siano superati i limiti massimi di pressione e temperatura. Alcuni di questi dispositivi li avrete sicuramente già sentiti nominare, si tratta: della valvola di sicurezza e della valvola di scarico termico.

di Fabio Gentile, ingegnere per il Magazine Condominio Zero Problemi

Appartamento condominiale e fisco

Detrazione canoni di locazione e comunicazione all’Amministratore
Spesso un affittuario non sa di avere diritto a una detrazione dalle tasse una quota del proprio canone di locazione. I casi previsti dalla legge sono molteplici.

 

Ai titolari di contratti di locazione per unità immobiliari adibite ad abitazione principale spetta una detrazione forfettaria, rapportata all’ammontare del reddito complessivo. La detrazione interessa i contratti a canone libero, a canone convenzionale, stipulati da giovani con età compresa tra i 20 e i 31 anni, o stipulati dai lavoratori dipendenti a causa del trasferimento per motivi di lavoro. Ricordiamo come Le detrazioni non sono cumulabili nello stesso periodo di tempo, ma il contribuente ha il diritto di scegliere quella a lui più favorevole.

La detrazione spettante agli inquilini che hanno stipulato o rinnovato un contratto di locazione per immobili adibiti ad abitazione principale è pari a 300,00 euro se il reddito complessivo non superi i 15.493,71 euro; se invece abbiamo un reddito complessivo tra 15.493,71 e 30.987,41 euro la detrazione spettante è pari ad euro 150,00.

La detrazione è suddivisa in base ai cointestatari del contratto di locazione dell’abitazione principale. La detrazione può essere fruita non solo se il contratto di locazione è stato stipulato ai sensi della legge 9 dicembre 1998, n. 431, ma anche se è stato stipulato ai sensi di precedenti normative ed automaticamente prorogato per gli anni successivi.

Ai soggetti titolari di contratti di locazione di unità immobiliari adibite ad abitazione principale, stipulati o rinnovati a norma dell’art. 2, comma 3, e dell’art. 4, commi 2 e 3, della l. n. 431 del 1998 (c.d. contratti convenzionali), spetta una detrazione stabilita in misura forfetaria, rapportata al numero dei giorni nei quali l’unità immobiliare è stata adibita ad abitazione principale, pari a 495,80 se il reddito complessivo non superi i 15.493,71 euro; se invece il reddito complessivo è ricompreso tra 15.493,71 e 30.987,41 euro la detrazione spettante è di euro 247,90.

Ai giovani con età compresa tra i 20 e i 31 anni non compiuti, con un reddito complessivo non superiore a 15.493,71 euro, che stipulano un contratto di locazione avente ad oggetto una unità immobiliare o sua porzione da destinare a propria residenza, spetta una detrazione dall’imposta lorda pari al 20% dell’ammontare del canone di locazione entro il limite massimo di 2.000,00 euro e, in ogni caso, la detrazione non può essere inferiore a 991,60 euro.

La detrazione compete per i primi quattro anni dalla stipula del contratto sempreché il conduttore si trovi nelle condizioni anagrafiche e reddituali richieste dalla norma. Il rispetto dei requisiti richiesti deve essere verificato in ogni singolo periodo d’imposta per il quale si chiede di fruire dell’agevolazione.

Per quanto riguarda il requisito anagrafico, questo è soddisfatto se ricorre anche per una parte del periodo d’imposta; tuttavia, il contratto deve essere stipulato prima del compimento del trentunesimo anno d’età. In tal caso la detrazione spetta solo fino all’anno d’imposta in cui si sono compiuti i 31 anni.

Ricordiamo che nel caso in cui il contratto di locazione sia stipulato da più conduttori e solo uno abbia i requisiti di età previsti dalla norma, solo quest’ultimo può fruire della detrazione in esame per la sua quota.

Ai lavoratori dipendenti che per esigenze di lavoro trasferiscano la propria residenza nel comune di lavoro o in uno limitrofo spetta una detrazione forfettaria pari a 991,60 euro se il reddito complessivo non supera i 15.493,71 euro; se invece il reddito complessivo sia compreso tra 15.493,71 e 30.987,41 euro la detrazione spettante è di 495,80 euro. Nel caso in cui il lavoratore dipendente perda tale qualifica, la detrazione non spetta più dal periodo d’imposta successivo a quello in cui la qualifica è venuta meno.

L’elemento cardine che caratterizza la detrazione è il trasferimento della residenza nel comune di lavoro o in uno limitrofo; questo cambiamento deve avvenire nei 3 anni che precedono la richiesta di detrazione che spetta per i primi 3 anni dalla data di variazione della residenza.

Il Comune in cui si è spostata la residenza deve essere situato ad almeno 100 km di distanza dal precedente Comune e, in ogni caso, in una regione diversa.

Il lavoratore deve essere titolare di un contratto di locazione di unità immobiliare adibita ad abitazione principale. Nel caso in cui il contratto sia intestato a più soggetti, la detrazione va suddivisa tra gli intestatari del contratto che possiedano i predetti requisiti, nella misura spettante in base al proprio reddito. Qualora il contratto sia intestato a 3 soggetti, 2 dei quali lavoratori dipendenti, la detrazione spetta solo a questi ultimi, in misura pari al 50% ciascuno, fermo restando i limiti previsti per i relativi redditi.

Ricordiamo come ogni volta che si sottoscriva un contratto di locazione questo vada registrato presso l’Agenzia delle Entrate (o di persona invero telematicamente). Tale registrazione va effettuata entro 30 giorni dalla data di stipula, o di decorrenza, del contratto di locazione. Entro 60 giorni, invece, va data comunicazione all’Amministratore di Condominio dell’avvenuta registrazione del contratto.

La comunicazione all’Amministratore deve contenere i dati anagrafici del nuovo inquilino, nel caso di un nuovo contratto di affitto, o del nuovo proprietario dell’unità immobiliare in caso di compravendita. Andranno inoltre comunicati gli estremi del contratto che sancisce il passaggio di proprietà o di utilizzo dell’appartamento, ovverosia numero di registrazione e data del contratto – o dell’atto notarile di compravendita (prassi consuetudinaria è quella di trasmettere la prima pagina del contratto di locazione, contenente tutti i dati anagrafici delle parti, l’ubicazione e la durata del contratto).

La normativa parla esplicitamente di “documentata comunicazione” della registrazione del contratto, che il proprietario deve trasmettere al conduttore e all’amministratore del condominio. Generalmente è sufficiente comunicare gli estremi della registrazione dell’atto, che consentono di risalire con facilità a tutti i dati necessari per individuare il nuovo locatario.

La normativa di riferimento risale alla legge 431 del 1998, “Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo”, modificata poi dalla legge 208 del 2015 – la cosiddetta Legge di Stabilità. Nella Legge di Stabilità è chiaramente esplicitato che: “è fatto carico al locatore di provvedere alla registrazione nel termine perentorio di trenta giorni, dandone documentata comunicazione, nei successivi sessanta giorni, al conduttore ed all’amministratore del condominio, anche ai fini dell’ottemperanza agli obblighi di tenuta dell’anagrafe condominiale di cui all’articolo 1130 del Codice civile”. L’articolo del Codice civile cui si fa riferimento riguarda le attribuzioni e gli obblighi degli amministratori di condominio, tra i quali vi sono:

  • La convocazione delle assemblee e la cura dell’osservanza del regolamento condominiale;
  • La riscossione dei contributi e loro erogazione per le spese di manutenzione ordinaria degli spazi;
  • La responsabilità in materia di adempimenti fiscali;
  • La tenuta del registro di anagrafe condominiale.

Tale registro contiene “le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare”.

Ogni modifica relativa ai dati citati deve necessariamente essere comunicata all’amministratore entro 60 giorni, affinché questi possa tener fede al proprio obbligo di curare ed aggiornare il registro di anagrafe condominiale. Il duplice obbligo, in capo al locatario, di registrazione del contratto e di comunicazione dei dati all’amministratore, è dunque stato introdotto soltanto nel 2016, con la Legge di Stabilità. La stessa legge prevede che, in caso di inerzia da parte del proprietario dell’unità abitativa, sia lo stesso amministratore di condominio ad attivarsi onde ottenere i dati necessari al corretto adempimento dei suoi doveri.

Ricordiamo come l’amministratore di condominio abbia la facoltà di addebitare al locatore gli eventuali costi sostenuti per l’ottenimento dei dati, ma anche che l’amministrazione condominiale può avere la sua parte di responsabilità in merito all’obbligo di ottenere i dati di cui sopra, anche laddove non venissero comunicati dal locatore come disposto dalla legge.

Gli unici due strumenti che consentono tale comunicazione sono la raccomandata con ricevuta di ritorno e la PEC (questo perché sono gli unici strumenti che possono rilasciare ricevuta di avvenuta consegna), che quindi andranno assunti come strumento da prediligere per questo genere di comunicazioni.

di Alessandro Gradelli, fiscalista  per il Magazine Condominio Zero Problemi

Condominio e TFR portieri

Cosa c’è da sapere sul tuo TFR

L’indennità del TFR risale al 1924 con la legge sull’impiego privato R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, la norma introdusse un’indennità ulteriore, valida solo per il personale impiegatizio e solo per i casi di licenziamento non per giusta causa, prima  del 1982, l’indennità spettante al prestatore di lavoro all’atto della cessazione del rapporto era denominata,  indennità di licenziamento, e successivamente indennità di anzianità.

Con la  Legge 297/1982 il legislatore  ha  modificato profondamente l’istituto, ora denominato Trattamento di fine rapporto. Il TFR è un elemento retributivo differito che spetta al lavoratore subordinato in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, è una quota parte della retribuzione mensile, che viene accantonata e poi erogata dal datore di lavoro quando il rapporto lavorativo si interrompe. Queste quote sono poi rivalutate e sono a disposizione del lavoratore nel momento in cui   cessa il rapporto di lavoro.

Un’ulteriore modifica è stata introdotta con il D.Lgs. 21/04/1993, n. 124 che ha   inserito la disciplina dei fondi pensione privatistici, cioè di quelle forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari con lo scopo di assicurare   livelli di copertura previdenziale più elevati.

Le forme di Previdenza Complementare costituiscono il c.d. secondo pilastro del nostro sistema previdenziale, che si affianca al sistema pensionistico pubblico c.d. primo pilastro.  Con la Legge 296/2006, si è reso obbligatorio il conferimento del TFR maturando a forme pensionistiche complementari, dal 1° gennaio 2007, ha di nuovo mutato la finalità dell’istituto che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe diventare uno strumento di finanziamento previdenziale.

Dal 1 gennaio 2007, ciascun lavoratore dipendente deve decidere se destinare il proprio TFR da maturare alle forma pensionistiche complementari o mantenere lo stesso presso il datore di lavoro.

E’ importante sottolineare   che il nuovo regime riguarda esclusivamente il TFR che matura dal 1° gennaio 2007. Il TFR maturato fino alla data di esercizio dell’opzione resta accantonato presso il datore di lavoro e sarà liquidato alla fine del rapporto di lavoro.  Il lavoratore entro 6 mesi dall’assunzione deve esprimere la sua volontà, se avvenuta successivamente al 1° gennaio 2007; mentre per i lavoratori  già in servizio all’entrata in vigore della riforma hanno dovuto esprimere la scelta entro il 30.6.2007, il lavoratore dipendente del settore privato deve effettuare la scelta di adesione o meno alla previdenza complementare con le seguenti modalità :

  1. Il lavoratore può decidere di aderire alla previdenza complementare, indicando il fondo pensione prescelto e dichiarando la propria volontà di conferirvi a titolo di contribuzione il TFR maturando (assenso esplicito), l’adesione determina l’automatica iscrizione del lavoratore alla forma indicata.
  2. Oppure decidere di non aderire, dichiarando espressamente il proprio diniego (rifiuto esplicito) scegliendo per il mantenimento del TFR maturando presso il proprio datore di lavoro; il lavoratore comunque può sempre decidere successivamente di revocare tale scelta e conferire il TFR ad un fondo pensione complementare. Nel caso in cui il lavoratore lasci passare inutilmente i 6 mesi di tempo previsti dalla legge, l’adesione al fondo pensione categoriale avviene automaticamente, e comporta la devoluzione integrale e obbligatoria del TFR maturando (silenzio – assenso).

Il datore di lavoro è obbligato a trasferire il TFR maturando del dipendente al fondo pensione individuato secondo i criteri definiti dall’art. 8, c. 7, lett. b, DLgs. 252/2005.

Se il lavoratore aderisce volontariamente o per effetto del silenzio assenso, la decisione sarà irrevocabile e il TFR maturando sarà devoluto al Fondo Pensione ( Al termine del rapporto pertanto non gli verrà corrisposto il TFR, ma riceverà, a cominciare dalla data di maturazione dei requisiti per il diritto al trattamento pensionistico, sarà una pensione integrativa in forma  di una rendita periodica); se l’adesione proviene da un lavoratore con un rapporto iniziato anteriormente al 1° gennaio 2007, il TFR maturato precedentemente sarà corrisposto in regime di retribuzione differita alla cessazione del rapporto;

Se il lavoratore decide di non aderire a nessuna previdenza complementare continuerà a maturare il TFR che sarà liquidato al termine del rapporto in regime di retribuzione differita.

Un regime particolare è previsto per i lavoratori con rapporto già in essere al 29 aprile 1993, è previsto  un regime particolare, in quanto  hanno la possibilità di trasferire anche solo una parte del TFR maturando, con le seguenti modalità:

  • I soggetti che al 1° gennaio 2007 erano già iscritti ad una forma pensionistica complementare possono decidere di contribuire al fondo con la stessa quota versata in precedenza mantenendo presso il datore di lavoro la quota residua di TFR. In tal caso, per i lavoratori di aziende con più di 49 dipendenti, il residuo TFR è trasferito dal datore di lavoro al Fondo Tesoreria Inps;
  • I lavoratori che al 1° gennaio 2007 non erano iscritti ad una forma pensionistica complementare possono scegliere di trasferire il TFR futuro a una forma pensionistica complementare, nella misura fissata dagli accordi collettivi o, in assenza, in misura non inferiore al 50%.

In entrambi i casi resta ferma la possibilità di incrementare la quota di TFR futuro da versare alla forma pensionistica complementare.

L’adesione dei dipendenti alle forme pensionistiche complementari comporta L’obbligo per i datori di lavoro di versare mese per mese la quota di retribuzione  accantonata a titolo di TFR al Fondo Pensione prescelto dal lavoratore.

Nelle  aziende con almeno 50 dipendenti, il datore perde di fatto la disponibilità di tali quote dovendole conferire ad un apposito fondo (c.d. Fondo Tesoreria) istituito dalla Legge 296/2006 presso la Tesoreria dello Stato e gestito dall’Inps.

Il Fondo Tesoreria erogherà le prestazioni secondo le modalità previste dall’art. 2120 c.c.

Anche il calcolo del Tfr ha subito nel tempo delle modifiche infatti la della Legge 297/1982, prevedeva, in caso di cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la corresponsione al lavoratore di un’indennità di anzianità proporzionale agli anni di servizio. L’ammontare dell’indennità (conosciuta come liquidazione) era determinata in base all’ultima retribuzione e in relazione alla categoria di appartenenza del prestatore di lavoro.

Il calcolo dell’indennità di anzianità seguiva modalità diverse a seconda che si trattasse di impiegati o di operai:

  • per gli impiegati si moltiplicava l’ultima retribuzione mensile per il numero di anni di servizio maturati presso la stessa azienda;
  • per gli operai si moltiplicava l’ultima retribuzione oraria per il numero di ore annue (fissato convenzionalmente dalla contrattazione collettiva di categoria) e quindi per il numero di anni di servizio.

Secondo l’art. 2120 Codice Civile, come modificato della L. 297/1982, il TFR si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari, e comunque non superiore, all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5 (art. 2120 c.c., c. 1).

In caso di sospensione del rapporto di lavoro nel corso dell’anno per infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve considerarsi quale base per il calcolo del TFR da accantonare l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto stesso (art. 2120 c.c., c. 3).

La quota di TFR accantonata, ad eccezione di quella maturata nell’anno in corso, deve essere incrementata al 31 dicembre di ogni anno, con l’applicazione di un tasso dell’indice Istat (art. 2120 c.c., c. 4).

Per i lavoratori in forza alla data del 1° giugno 1982,il TFR verrà  calcolato con il sistema misto, per gli anni di lavoro anteriori alla L. 297 del 1982 , si calcola la retribuzione di maggio 1982 per gli anni di servizio maturati fino al 31/05/82 e l’importo ottenuto viene rivalutato anno per anno, sempre in base alle tabelle Istat.

Per i periodi successivi al 1/06/1982 il calcolo viene effettuato in base all’art 2120 c.c.

Il TFR spettante sarà dunque costituito dalla somma degli importi ottenuti con i due criteri di calcolo.

L’art. 2122 stabilisce che, in caso di morte del lavoratore, il TFR maturato fino alla data del decesso sia corrisposto sotto forma di indennità sostitutiva ai superstiti.

Ne hanno diritto il coniuge, i figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, anche i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. In mancanza di tali persone, l’indennità è attribuita secondo le regole della successione testamentaria o legittima.

E possibile per il lavoratore richiedere un anticipazione del TFR (art. 2120 c.c. commi 6 – 11) in base a determinate condizioni:

  • il lavoratore deve avere maturato almeno 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro;
  • l’anticipazione deve essere contenuta nei limiti del 70 % del trattamento spettante nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta;
  • l’anticipazione deve essere altresì contenuta nei limiti del 10 % degli aventi titolo e, comunque, del 4 % del numero totale dei dipendenti. ;
  • l’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro (art. 2120 c.c., c. 9).

La richiesta deve essere giustificata dalla necessità di:

  • per spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti da strutture pubbliche;
  • Per acquisto della prima casa di abitazione per seo per i figli, deve essere documentato con atto notarile; per spese sostenute durante i periodi di utilizzo di congedi parentali o per spese di formazione del lavoratore.

Per terminare è importante ricordare che l’art 2 della L. 297/82 ha istituito presso l’INPS il Fondo di Garanzia per il TFR, questo fondo ha lo scopo di erogare al lavoratore dipendente o suoi aventi causa il TFR in caso di insolvenza da parte del Datore di Lavoro; i casi in cui può essere richiesta l’erogazione del TFR da parte del Fondo di garanzia sono definiti dallo stesso art. 2 della Legge 297/1982 (commi 2 – 5); essi sono: Il Fallimento; il Concordato Preventivo e la Liquidazione Coatta Amministrativa.

di Marina Parente, consulente del lavoro per il Magazine Condominio Zero Problemi

Impianti termici condominiali: Prevenzione incendi:

Quali sono i documenti necessari?

Gli ultimi aggiornamenti normativi ai fini della prevenzione incendi di impianti termici privati e condominiali hanno visto l’evolversi dei decreti e da questo, una specifica attenzione non solo alle attività soggette ma anche ai diretti responsabili che ne garantiscono il corretto funzionamento ai fini amministrativi legali ed impiantistici.

Cosa sta cambiando: L’avvento del DPR 151/2011 che regolamenta i procedimenti relativi alla prevenzione incendi ha introdotto importanti modifiche che interessano anche condomini residenziali, comprensivo delle autorimesse e centrali termiche di loro pertinenza. 8da non dimenticare che l’ottenimento di titoli autorizzativi è obbligatorio da molti molti anni, ahimè)

Tali modifiche hanno riguardato sia i criteri di classificazione, sia i procedimenti necessari per la presentazione della Segnalazione Certificata di Inizio Attività antincendio (SCIA antincendio) e quindi dell’iter di adeguamento antincendio ed ottenimento di titolo autorizzativo. (S.C.I.A.)

Le modifiche introdotte dal nuovo DPR, non alterano né le regole tecniche a cui gli edifici (autorimesse e centrali termiche di competenza) devono sottostare né, di conseguenza, le opere di adeguamento necessarie, bensì introducono nuovi criteri procedurali nello specifico la cosiddetta “Segnalazione Certificata di Inizio Attività antincendio” (SCIA antincendio) che ha sostituito e superato il Certificato di Prevenzione Incendi (C.P.I.).

Svolgendo questo lavoro da parecchi anni, spesso mi accorgo di quanto, molti titolari di attività soggette VV.F. sottovalutino l’importanza di essere in ordine con codesti documenti.

Si tratta di attività antincendio (CENTRALI TERMICHE) che a prima vista possono sembrare semplici ma che invece possono rivelarsi molto pericolose se gestite male.

Il timore legato alla mancata sicurezza della centrale termica (ORMAI DIVENUTO OGGETTO DI ORDINE PENALE) è sensato.

Il ruolo dell’amministratore del condominio

La attuale normativa ha radicalmente mutato il ruolo e le modalità dei controlli effettuati dai Vigili del Fuoco. Rispetto alla previgente normativa, che prevedeva il Rilascio del Certificato Prevenzione Incendi a seguito di sopralluoghi e verifica delle documentazioni fornite, nel DPR n.151 del 1.08.2011 i Vigili del Fuoco effettuano i controlli ex post, cioè a seguito presentazione di SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio attività), nei quali potrà essere accertata una inadempienza di natura penale e/o amministrativa.

La specifica delle violazioni è prevista nell’art.20 del D.Lgs 8 marzo 2006, n.139
 e riguarda mancati adempimenti relativi ai procedimenti di prevenzione incendi, ed in particolare:

Le responsabilità del titolare dell’attività:

Le inadempienze a carico del responsabile dell’attività si configurano in due casi:
– Omessa presentazione della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività).
L’attività viene esercita, rientra tra quelle soggetta a controllo di prevenzione incendi ed il responsabile non è in grado di dimostrare l’avvenuta presentazione della SCIA, mediante ricevuta   in fondo al modello PIN 2 – 2014 SCIA, oppure mediante ricevuta invio PEC;

– Omessa presentazione di attestazione di rinnovo periodico in assenza di variazioni di cui all’art.5 del DPR n.151 del 1.08.2011.
L’attività viene esercita, rientra tra quelle soggette a controllo di prevenzione incendi, è in possesso di una SCIA o Certificato Prevenzione Incendi scaduti ed il responsabile non è in grado di dimostrare l’avvenuta richiesta di rinnovo periodico attestazione di rinnovo, mediante ricevuta in fondo al modello PIN 3– 2014 RINNOVO PERIODICO oppure mediante ricevuta invio PEC.
In tali casi si applica l’art.20 del DLeg.vo n.139/2006 che prevede “Chiunque,  in  qualità  di  titolare  di  una  delle attività soggette  al  rilascio del certificato di prevenzione incendi, ometta di  richiedere  il  rilascio o il rinnovo del certificato medesimo è punito  con  l’arresto  sino ad un anno o con l’ammenda da 258 euro a 2.582 euro“. Si tratta un reato Penale a carico del responsabile (titolare, responsabile legale, dirigente ecc.).

La formalizzazione dell’inadempienza avviene secondo le procedure previste dal Codice di procedure Penale e prevede la verbalizzazione dell’accertamento e la notizia di reato alla Autorità Giudiziaria, con particolare riferimento alla identificazione della persona responsabile e del reato individuato.

Le responsabilità di altri soggetti:

Oltre al responsabile dell’attività, la normativa prevede delle responsabilità aggiuntive derivanti dalla attestazione di fatti non corrispondenti al vero.
Sempre l’art. 20, 2^ comma, del DLg.vo n.139/2006 prevede “Chiunque, nelle certificazioni e dichiarazioni rese ai fini del rilascio o del rinnovo del certificato di prevenzione incendi, attesti fatti non rispondenti al vero è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da 103 euro a 516 euro. La stessa pena si applica a chi falsifica o altera le certificazioni e dichiarazioni medesime”.
Si tratta un reato penale, in cui si possono individuare attestazioni non veritiere (falso ideologico) ovvero contraffazione di documentazione (falso materiale) nella redazione dei modelli previsti, la cui responsabilità viene attribuita ad altri soggetti che intervengono nel procedimento, in particolare il professionista abilitato, il professionista abilitato nel campo antincendio, ditte installatrici nel campo degli impianti.

Provvedimenti amministrativi  ed eventuale sospensione dell’attività
Oltre alle sanzioni penali previste, è previsto un altro possibile provvedimento : la sospensione dell’attività

Sempre l’art.20 del DLeg.vo n.139/2006 prevede che “Ferme  restando  le sanzioni penali previste dalle disposizioni vigenti, il  prefetto  può  disporre  la sospensione dell’attività nelle  ipotesi in cui i soggetti responsabili omettano di richiedere: il rilascio ovvero il rinnovo del certificato di prevenzione incendi; i servizi  di  vigilanza  nei  locali  di  pubblico  spettacolo  ed intrattenimento e nelle strutture caratterizzate da notevole presenza di  pubblico per i quali i servizi medesimi sono obbligatori. La sospensione  è disposta fino all’adempimento dell’obbligo”.

In genere la sospensione dell’attività la valuta il Prefetto della Provincia di competenza, a seguito di valutazione dei pericoli per la pubblica e privata incolumità.
Da ultimo, ma non meno importante, la mancanza della SCIA viene comunicata al Sindaco del territorio in cui insiste l’attività, che a sua volta valuta ulteriori aspetti connessi all’agibilità, compatibilità con regolamenti urbanistici, edilizi ecc. nonché valuta la emissione di provvedimenti amministrativi di competenza (revoche di licenze, agibilità, prescrizioni ecc.).

 

Adeguamento INAIL (ex. ISPESL)

Se vi state chiedendo cos’è la pratica INAIL proviamo a ricordarvelo dicendovi che è entrata in vigore sostituendo la vecchia ISPESL, acronimo di Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro. La sua funzione è quella di controllare, fornire dati, fornire consulenza, assistere, formare e informare sulla prevenzione degli infortuni e delle malattie legate al lavoro. Fondamentalmente il ruolo svolto riguardava la tutela dei lavoratori sul luogo di lavoro, rendendolo più sicuro.

Con la legge nº78 del 31 maggio del 2010, l’ISPESL venne soppresso e così tutte le sue funzioni, a partire da quella data, vennero attribuite all’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione per gli Infortuni sul Lavoro).

Cos’è la pratica INAIL

La denuncia o pratica INAIL consiste nell’obbligo previsto dalla legge di far rispettare determinati requisiti di sicurezza a tutti gli impianti termici che hanno una potenzialità superiore ai 35 kW. (impianti a pressione, che si tratti di impianti a vaso chiuso che aperto)

I parametri necessari per definire la sicurezza di un impianto di riscaldamento ad acqua calda pressurizzata, sono indicati nel Titolo II del Decreto Ministeriale del 1º dicembre del 1975.

In questo Decreto viene affermato che alcune tipologie di impianti (poi vedremo nello specifico quali) devono essere realizzati ed installati garantendo la stabilità anche in condizioni di massima pressione, in base all’attività che devono svolgere per espletare la loro funzione.

Nella fattispecie, casi più noti come impianti a vaso aperto (presenza di vaso di espansione, tubo di scurezza, tubo di carico, dispositivi a bordo caldaia) – impianti a vaso chiuso (presenza di vaso di espansione, valvola di sicurezza, valvola scarico termico o valvola intercettazione combustibile, pressostati di massima e minima, dispositivi a bordo caldaia)

Questa regola vale per:

  • i generatori di calore che vengono alimentati con il combustibile (liquido, solido o gas);
  • i generatori di vapore;
  • gli impianti di riscaldamento che utilizzano acqua calda sotto pressione.

Quando serve la pratica INAIL

Come già accennato questa pratica è obbligatoria per legge nel caso di impianti termici che hanno una potenzialità superiore ai 35 kW. Oltre ai casi che abbiamo elencato sopra, esistono anche altre fattispecie per le quali è prevista l’obbligatorietà di denunciare l’impianto all’INAIL, si tratta dei casi in cui vi è una nuova installazione di un impianto, modifiche riguardanti i dispositivi di sicurezza dei generatori o anche nel caso di modifiche apportate al generatore che aumentano il potenziamento dell’impianto.

La denuncia dell’impianto all’INAIL va fatta prima dell’inizio della costruzione o del potenziamento del generatore. L’incaricato ad effettuare questa denuncia è l’installatore che deve presentare, oltre alla richiesta, anche un progetto sottoscritto da un professionista come un ingegnere oppure un tecnico con l’abilitazione a svolgere questa funzione.

Dopo aver ricevuto la pratica, l’INAIL procede con le dovute verifiche sul progetto presentato e in seguito comunica la decisione all’interessato. Se il responso ha esito positivo, l’INAIL provvederà ad omologare l’impianto termico.
Inoltre, per alcune categorie di impianti termici è prevista, con decorrenza quinquennale, la verifica da parte della stessa INAIL dell’efficienza dei sistemi di sicurezza e di controllo. Questa fattispecie si concretizza per tutti gli impianti termici centralizzati installati nei condomini (dove vige l’obbligo di nomina dell’amministratore) o anche per tutti gli impianti che hanno una potenza dei focolai superiore a 116 kW.

Tuttavia una Circolare INAIL del 14 dicembre 2010 ha introdotto la Raccolta-R del 2009 (sostituisce le vecchia Raccolta-R dell’82) che fa riferimento agli impianti di riscaldamento centralizzati che adoperano acqua calda (con temperatura 110º) pressurizzata e con potenza superiore al limite concesso dal Decreto Ministeriale del 1975.

In sostanza la Raccolta-R propone dei sistemi automatici volti ad assicurare che non siano superati i limiti massimi di pressione e temperatura. Alcuni di questi dispositivi li avrete sicuramente già sentiti nominare, si tratta: della valvola di sicurezza e della valvola di scarico termico.

di Fabio Gentile, ingegnere per il Magazine Condominio Zero Problemi

Diritto di querela, laddove la persona offesa da reato sia il condominio stesso

Negli articoli pubblicati nei numeri precedenti abbiamo esaminato alcuni reati che, non di rado, vengono commessi in ambito condominiale. In questa occasione, invece, vogliamo approfondire il tema della titolarità del diritto di querela, laddove la persona offesa da reato sia il condominio stesso.

A una prima impressione, si sarebbe portati a rispondere affermando, semplicemente, che il diritto di querela nell’interesse del condominio spetti all’amministratore o al singolo condomino indifferentemente (si pensi alle querele per reati di furto di beni comuni, di violazione di domicilio di spazi condominiali o di appropriazione indebita di fondi condominiali). In realtà la risposta richiede delle importanti precisazioni per non incorrere in querele invalide.

Ebbene, per quanto concerne l’amministratore, questi potrà sporgere validamente la querela solo nel caso in cui sia munito di apposito mandato conferitogli dall’assemblea. É da escludersi pertanto che all’amministratore del condominio spetti un tale potere, automaticamente connesso alla carica.

Infatti, “…il condominio negli edifici non è un soggetto giuridico dotato di una personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, ma uno strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini, attraverso il quale deve esprimersi la volontà di sporgere querela; ne consegue che la presentazione di quest’ultima in relazione ad un reato commesso in danno del patrimonio condominiale presuppone uno specifico incarico conferito all’amministratore dall’assemblea dei condomini…” (Cassazione penale sez. IV – 23/09/2021, n. 36545 in Diritto & Giustizia 2021, 11 ottobre).

Ed ancora: “Per la proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un condominio di edifici occorre la preventiva unanime manifestazione di volontà da parte dei condomini così da conferire all’amministratore l’incarico di perseguire penalmente un soggetto per un fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune (nella specie, l’imputato, era accusato del reato di appropriazione indebita aggravata e continuata in danno di un condominio, essendosi appropriato, in qualità di amministratore condominiale, di un ingente somma di denaro)” (Cassazione penale sez. II – 13/02/2020, n. 12410, in Diritto & Giustizia 2020, 20 aprile)

Pertanto, in mancanza di una preventiva unanime manifestazione di volontà da parte dei condomini, l’amministratore non è legittimato a proporre querela, pur se relativa ad un fatto lesivo del patrimonio condominiale “…in quanto la querela, costituendo un presupposto della validità dell’esercizio dell’azione penale e non un semplice mezzo di cautela processuale o sostanziale, non può essere ricompresa fra gli atti di gestione dei beni o conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio spettanti all’amministratore…” (Cassazione penale sez. II – 29/11/2000, n. 6 in Arch. nuova proc. pen. 2001, 177).

 

Con riferimento, invece, al singolo condomino, in un primo tempo si era affermato in giurisprudenza il principio secondo cui questi non fosse legittimato a presentare querela per un reato lesivo dei beni comuni del condominio.

Tanto ciò è vero che, proprio in applicazione di tale principio, la Cassazione aveva annullato la condanna (dal reato di violazione di domicilio) di un imputato che si era introdotto clandestinamente nel sottoscala di un edificio, dove era stato scoperto e successivamente querelato da un condomino (Cassazione penale sez. V – 26/11/2010, n. 6197 Diritto e Giustizia online 2011).

Tale principio è stato ribadito dalla Cassazione secondo cui “non è valida la querela proposta dal singolo condomino per un reato che sia commesso in danno di parti comuni dell’edificio, in quanto il condominio è strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini e l’espressione della volontà di presentare querela passa attraverso detto strumento di gestione collegiale…” (Cassazione penale sez. VI – 03/07/2019, n. 41978 in Diritto & Giustizia 2019, 14 ottobre).

Tuttavia più recentemente, la Cassazione è tornata sui propri passi avendo affermato che “il singolo condomino è legittimato alla proposizione della querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune. [Fattispecie relativa all’appropriazione indebita, da parte dell’amministratore cessato dalla carica, del denaro versato dai condomini per le spese comuni] “(Cassazione penale sez. II – 27/10/2021, n. 45902 in Cassazione Penale 2022, 5, 1878).

Pertanto, alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali, sembrerebbe essere superato il precedente orientamento, come espresso dalla richiamata sentenza n. 6197/2011.

Non è escluso, tuttavia, che in ragione di tale contrasto tra le sezioni semplici della Cassazione, le Sezioni Unite siano presto chiamante a porre fine al contrasto, indicando il principio di diritto corretto.

Ad ogni buon conto, nel frattempo, onde evitare di incorrere nel difetto di querela appare opportuno che questa sia presentata dall’amministratore a seguito di espressa delibera condominiale.

di Mirko Scorsone, avvocato penalista per il Magazine Condominio Zero Problemi

Beni condominiali e criteri di ripartizione

Quali sono i beni comuni in condominio e chi ne paga le spese

C’è spesso molta confusione circa i beni comuni e soprattutto sulla ripartizione delle relative spese. La giurisprudenza è però chiara su chi debba pagare la manutenzione dei beni comuni, compresi quelli che ricadano all’interno di una singola proprietà.

È circostanza nota che all’interno di un condominio, ai sensi dell’art. 1117 codice civile sono da considerarsi “oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio”, tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate.

L’elencazione di tali beni comuni prosegue con le aree destinate ai servizi in comune, come parcheggi, locali per la portineria, lavanderia, stenditoi e sottotetti destinati all’uso comune, ma anche le opere, installazioni e manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come ascensori, pozzi, cisterne, impianti idrici e fognari, sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, l’energia elettrica, il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo.

Tutti gli oneri di manutenzione delle parti ed opere comuni appena elencate, ricadono indistintamente su tutti i condomini, in ragione dei millesimi di proprietà posseduti, ma ben può accadere che alcune di esse ricadano all’interno o al confine di proprietà esclusive, generando così dubbi in merito alla relativa ripartizione delle spese.

A volte capita che alcuni pilastri o travi portanti risultino inseriti in proprietà individuali o ne delimitino il perimetro. Motivo per cui i condomini che vedono una colonna od un muro portante all’interno della propria abitazione lo ritengono comune e, al contrario, gli altri condomini in ragione della loro ubicazione li considerino di propria pertinenza esclusiva nel tentativo di sottrarsi dal contribuire alla relativa manutenzione. Sul punto pare opportuno fare chiarezza.

Per dirimere la vicenda la giurisprudenza, con condivisibile ragionamento, ha inteso valorizzare la funzione portante di pilastri e travi, specificando che detti elementi svolgono la loro funzione all’interno dell’edificio per la loro intera estensione, ossia dalle fondamenta sino alla copertura dell’edificio, comprese eventuali sopraelevazioni successivamente realizzate e prescindendo dalla posizione arretrata o avanzata che abbiano, non essendo ammissibili frazionamenti di sorta.

La natura comune di muri e pilastri è dunque determinata dalla loro funzione, essendo irrilevante la loro collocazione, per cui sarà da considerarsi comune anche il pilastro ricadente all’interno di una porzione di proprietà esclusiva; tale principio vale anche per gli architravi.

Tale caratteristica contraddistingue anche le facciate ed i pannelli perimetrali del fabbricato, da intendersi in tutti loro lati ivi comprese le facciate interne e muri perimetrali dei cortili, da considerarsi strutture essenziali che svolgono funzione portante e non solo estetica per l’edificio, dunque comune, per cui le relative spese di manutenzione saranno da ripartire tra condomini in misura proporzionale al valore delle rispettive proprietà, espresso in millesimi.

In ragione della comune funzione portante ed estetica, anche le spese per le facciate non possono essere suddivise per porzioni di piano o per singola unità.

Si ricorda infine che, analogamente, l’eventuale parapetto in muratura dei balconi dovrà essere considerato di natura comune con conseguente ripartizione delle spese, mentre andranno escluse dalla ripartizione comune le spese relative alla manutenzione di finestre, luci e vedute che svolgono invece una funzione esclusiva a beneficio del proprietario della porzione di piano cui ineriscono.

di Fabrizio Pacileo, avvocato per il Magazine Condominio Zero Problemi

E' possibile collocare dei ripetitori telefonici nei condomini?

Ripetitori telefonici sul lastrico solare, quali sono i rischi e quali leopportunità

Affrontiamo il tema della possibilità per il condominio di autorizzare l’installazione di ripetitori telefonici sul lastrico solare, anche alla luce della possibile evoluzione normativa in tema di emissioni elettromagnetiche.

Basta alzare lo sguardo al cielo per apprezzare come sempre più edifici condominiali ospitino sui propri lastrici solari dei ripetitori telefonici, comunemente detti “stazioni radio base”. Per valutare gli effetti derivanti dalla decisione di ospitare in ambito condominiale queste infrastrutture di comunicazione occorre considerare i possibili benefici e gli altrettanto possibili inconvenienti che possono derivare dalla loro messa in opera.

La possibilità di installare gli impianti telefonici sui lastrici solari è un’opportunità che ha delle sicure ricadute positive sotto il profilo economico per i condomini: le società concessionarie di telefonia mobile sono spesso disposte a corrispondere significativi importi a titolo di canoni di locazione per gli spazi che andranno ad ospitare i ripetitori.

Ma quali sono i possibili inconvenienti? Se per un verso, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha sinora preso posizione effettiva in merito alle possibili incidenze negative per l’ambiente e per la salute umana, va anche detto che questi ripetitori telefonici rischiano di incidere sull’immagine esteriore dell’edificio e, quindi, sul valore della proprietà immobiliare.

Pur essendo previsto un procedimento autorizzativo molto snello, secondo le previsioni del codice delle comunicazioni elettroniche – decreto legislativo n. 259/2003 – che stabiliscono, oggi, a seguito delle recenti modifiche intervenute per effetto del decreto “semplificazioni” d.l. n.76/2021, la possibilità di convogliare nell’unico procedimento autorizzativo tutti i pareri, intese nulla-osta etc. da parte delle amministrazioni interessate dal progetto, da esprimere eventualmente in sede di conferenza di servizi ex l. n. 241/1990, è per altro verso chiaro che l’installazione di un traliccio che ospita quattro, sei o più ripetitori telefonici è certamente in grado di generare emissioni elettromagnetiche.

Se le attribuzioni in materia di valutazioni paesaggistiche appartengono alle regioni e, per esse, ai Comuni che agiscono spesso per delega di funzioni regionali, sotto il profilo ambientale e di tutela della salute lo stesso codice delle comunicazioni elettroniche (decreto legislativo n. 259/2003) unitamente alla legge n. 36/2001, stabilisce limiti precisi in tema di esposizioni ai campi elettromagnetici che le Agenzie Regionali di protezione ambientale sono chiamate a verificare, onde evitare che l’installazione dei ripetitori in questione possa generare potenze tali da esporre a pericolo la salute dell’uomo.

Non è un mistero che, probabilmente anche sotto la pressione esercitata dai concessionari di telefonia mobile, vi siano state sin qui una serie di iniziative normative (o para-normative) tese a determinare un incremento dei limiti di esposizione alle emissioni elettromagnetiche consentiti. A oggi, il limite coincide con la misura pari al valore di 6 V/m (volt/metro). Ma se il legislatore dovesse cedere, com’è spesso accaduto nel recente passato, alle pressioni dei gestori, giungendo eventualmente a consentire emissioni molto più intense e in grado di interagire maggiormente con la popolazione residente nelle immediate vicinanze, cosa conviene fare? Accogliere le lusinghe dell’operatore di telefonia interessato ad installare l’antenna sul lastrico solare, oppure resistere alla tentazione economica a tutto vantaggio di una sicura riduzione dell’inquinamento elettromagnetico?

È anche proprio in considerazione di questa prospettiva, che si affaccia con sempre maggior frequenza sui tavoli del legislatore, che occorre probabilmente valutare l’effettiva convenienza della scelta da assumere, dal momento che assecondare l’interesse condominiale ad avere un’entrata economica fissa, che possa in qualche modo far fronte ai costi comuni, può certamente determinare una maggiore esposizione dei condomini al campo elettromagnetico generato dai ripetitori, i quali, nel prossimo futuro, ben potrebbero essere autorizzati ad emissioni di intensità più elevata rispetto a quanto oggi non consenta la stessa legislazione vigente.

di Carmine Genovese, avvocato per il Magazine Condominio Zero Problemi